Dal 10 al 22 settembre all’interno della
Casa delle Artiste avrà luogo l’esposizione “Trame di vita in una collettiva a
due piani”, a cura di Valentina Cavera, durante la quale Rosachiara Carletto,
Germano Casone, Patrizia Silingardi, Marina Pozzi, Loredana Caretti, Amos
Loffreda proporranno il loro lavoro.
Proprio come se realmente ognuno di questi
artisti vi abitasse dentro, si svilupperà una relazione degli uni con gli
altri, mentre le loro opere racconteranno le loro storie espresse attraverso
l’arte pittorica o scultorea nel caso di Germano Casone.
Germano Casone [Villa Biscossi
(PV), ‘47] attraverso le sue sculture di creta è come se desse voce ai bambini
di tutto il mondo, partendo innanzi tutto dal bambino dentro di sé. Di cosa
hanno bisogno i bambini d’oggi per crescere e diventare adulti in modo
corretto? Come è fatto il loro presente? E un ipotetico paese dei bambini
potrebbe esistere? I suoi bambini sono immersi nel sapere, cavalcano la
fantasia su uno spicchio di luna, si affacciano dalle finestre di un borgo dove
vige la semplicità.
A lavoro concluso, Casone si sofferma
molto sulla ricerca del titolo più appropriato, poiché in esso si svela il
legame con la realtà, ovvero il concetto che cerca di esprimere nell’atto
creativo, la sua filosofia di vita che traspare dalle sue opere scultoree. Lavora molto sulla natura
dei bambini, sui loro passi verso il futuro. «Il futuro è loro. Gliel’abbiamo
rovinato molto però noi grandi, anche se gli abbiamo dato una vita agiata –
racconta Casone - è il sistema che va ricostruito per poter gioire di questa
vita. L’istruzione, la cultura sono necessari. Oggi possediamo i computer ma
pur essendo un grande salto evolutivo, ci si è allontanati dalla lettura. In
primis i più giovani.» ”Un bimbo che legge sarà un adulto che pensa” è un
lavoro che vede protagonista un bambino intento nella lettura, in cima a dei
libri impilati gli uni sugli altri, mentre un adulto lo osserva con sguardo
pensoso. In “La cultura va sostenuta con forza” si legge la precarietà d’essa,
in quel gesto disperato di un uomo dinanzi ad una torre di testi sovrapposti
che rischia di cadere, mentre alla sua sommità un bambino è preso dal suo
libro. “Compagni di scuola” vede alcuni studenti sfogliare un medesimo
gigantesco libro, un inno all’istruzione.
Le immagini femminili di Amos Loffreda
(Chioggia,’62) sono una ricerca pittorica che mira alla rappresentazione della
personalità del soggetto. Nel corso della sua carriera ha sperimentato la
riproduzione di nature morte, ha interpretato la realtà in forma di astrazione
ma la sua ricerca poi si è soffermata sul ritratto. D’altra parte Amos nasce
come fotografo, quindi ha sempre lavorato con l’immagine. Successivamente, il
passaggio alla pittura è stato determinato da alcune produzioni che
coinvolgevano la pittura su elementi fotografici, finché l’elaborazione dei
soli colori sulla tela è diventato una realtà costante.
Il pavoneggiare delle sue donne,
attraverso le chiome o gli abiti multicolori, emana tutto il fascino femminile.
Non è un imitare la bellezza ma i soggetti che spesso cerca su internet sono
persone che gli provocano un’emozione, da cui estrapolare l’essenza che le
contraddistingue. Gli studi portati avanti a Venezia e gli approfondimenti sul
disegno dal vero dinanzi alle modelle hanno influenzato la sua creatività e si
sono concretizzati nei disegni che propone nel contemporaneo. Il gioco di
colori che si condensa in piccoli interventi riprodotti ripetutamente attorno
ai volti delle donne sono il suo modo di divagare nei percorsi dell’arte, per
rendere le sue opere esclusive. «Ho
approfondito il discorso sul mosaico e l’ho voluto riportare sui quadri
attraverso parti di carte colorate selezionate e recuperate in una stamperia a
Bassano. Successivamente aggiunta una resina particolare, abbino questa tecnica
al disegno vero e proprio realizzato con olio su tela.» In un suo dipinto spicca una donna con in mano un
piccolo volatile, esso s’intitola “Zeus che seduce Era”,
rappresenta quindi un’immagine mitologica. La leggenda vuole che Zeus nel
momento in cui entrò al potere, era deciso a prendere moglie. Essendo Era, sua
sorella, di venerabile bellezza pensò a lei. Purtroppo la Dea era
inavvicinabile, sempre controllata dalle serve; così dovette attendere il
momento giusto. Il giorno che la vide entrare nel bosco si tramutò in un
uccellino e quando lei lo raccolse dal terreno, lui si rivelò nelle sembianze
di un baldo giovane, come in effetti era, e così anche ella se ne innamorò. “A Prisca” è un’opera che vede per
protagonista una bambina nota nel suo paese che morì in tenera età. Lui la
raffigura mentre insegue un cardellino, perché quell’uccellino nell’antichità
era simbolo del trapasso dell’anima.
Amos
Loffreda è molto legato alla sua terra, per questo dipinge anche su un legno
spiaggiato che raccoglie attorno all’isola su cui abita.
L’universo
temporale di Rosachiara Carletto [Lonigo (VC) ‘56] si esprime attraverso i
colori e la prospettiva con cui è costruita l’immagine del paesaggio. Il
presente, il passato e il futuro sono impronta di cromatismi sensibili. Grazie
all’uso della spatola i suoi oli su tela nascondono il dettaglio per guidare lo
sguardo verso l’oggetto rappresentato affinché l’emozione, nell’impatto visivo,
sia preponderante. I colori, l’armonia tra essi, il loro elaborarsi
strutturalmente, in Rosachiara, sono come sogni ad occhi aperti. «A volte quando sogni vedi delle cose poco
definite, intravedi qualcosa ma non si capisce cos’è – racconta Rosachiara - la
mia ricerca mira a quel qualcosa di soffuso.»
Le tematiche che affronta nei suoi dipinti ruotano attorno a
elementi fissi da cui si originano versioni differenti di un argomento. Uno di
essi è l’atmosfera o l’estate che vengono personificati sempre da un soggetto
paesaggistico. Spesso è un
paesaggio solitario dove sorgono isole, tra virgolette, in cui rifugiarsi, come
nel caso di “isolotti come smeraldo”, “le atmosfere”, “la luna bussò”; altre
volte quando sembra che l’artista ingrandisca il soggetto paesaggistico come
con una lente di ingrandimento, le tonalità danno il senso di un’emozione più
concreata, quasi tangibile. La realtà del particolare infatti rappresentata
nell’”Estate” sembra quasi esserci vicina, nel presente. I suoi lavori si
intrecciano con la temporalità dell’essere umano: quando coglie il soggetto da
lontano dà un’impronta al tempo nel suo perdersi tra i giorni del quotidiano in
vista di un futuro sperato, quando lo svela da vicino ci fa toccare il
presente, frutto, nel suo caso, di un passato felice. «I soggetti che io dipingo passano sicuramente attraverso il
mio vissuto, la natura in genere mi ha sempre affascinato. Ho sempre vissuto in
paesini di campagna dove lo sguardo si perde nel verde, dove il rumore del
vento è come una melodia e dove io spesso mi ritrovo assorta, con gli occhi
socchiusi per cogliere le sfumature di uno scorcio e ad ascoltare il silenzio.
– ci confida Rosachiara - Le mie marine “Atmosfere” sono nate un po' dalla mia
passione per la laguna, per il delta del po', un po’ per la ricerca di qualcosa
di infinito».
Marina Pozzi
[Limbiate, (Mi) ’60] conduce gli ospiti dinanzi a differenti soggetti che
abitano nella sua interiorità, essendo parti di una sua biografia personale,
legata a desideri, all’infanzia, all’ inconscio, al suo voler rivoluzionare la
società che la circonda. Ogni persona è vestita di colore, in un gioco
monocromatico che fa risaltare simbolicamente il proprio carattere. Il colore
in Marina Pozzi è emozione, presenza attiva, potere d’essere. Utilizzando vari
materiali e numerose tecniche pittoriche realizza questi ritratti. Ognuno di
essi si esprime attraverso il colore, il segno, con cui traspare dalla materia
e mediante una simbologia di elementi con cui viene presentato dall’artista.
“Maternità”, in acrilico su cartoncino blu, raffigura una madre che allatta uno
dei suoi due piccoli, entrambi vicini. I tratti dei loro corpi e dei loro visi
sono decisi: la purezza del bianco si mescola al blu, ovvero alla profondità
della vita. «Ho tracciato
la maternità - spiega Marina - quella maternità tanto sognata, un passaggio
quasi obbligatorio nella nostra società, che non potrà mai essere una condizione
possibile per me a causa di un problema intimo. Un passaggio importante è stato
trasferire l’atto creativo dai figli che avrei voluto ai miei dipinti, alla
creatività artistica.»
Quella bambina con il cappello, di colori scuri in acquerello, rappresenta lei
stessa da piccina che nel corso del tempo le è rimasta dentro nonostante la
durezza della vita l’abbia costretta a crearsi una spessa corazza e l’abbia
schiacciata dal peso delle difficoltà. “La donna con l’orecchino di perla”
rappresenta la gentilezza, l’eleganza, quelle qualità che lei possiede e che si
aspetta di vedere anche nelle altre sue simili ma che, oggi come oggi, nota
invece quanto si siano affievolite vorticosamente per quella pazza corsa di
omologazione all’uomo... E poi compare “L’indiano” d’ acrilico rosso, avvolto
da una nuvola di una tonalità più intensa, per esaltarne maggiormente la
grinta. Una grinta che Marina Pozzi ha e che incarna la sua mascolinità: «L’indiano è la forza del
guerriero.»
Il segno
distintivo di Patrizia Silingardi (Modena, ’59) si concretizza da una parte
nelle sue proposte di rappresentazione oggettuale su differenti piani materici,
dall’altro nel suo muoversi agilmente tra tecniche artistiche anche distanti
tra loro, come la pittura e il ricamo: acquerello giapponese su veline
giapponesi oppure su tele di lino antiche, tecniche miste con acquerello
giapponese dipinto su pannelli lavorati a scrostature, simili a vecchi muri…
acquerello giapponese dipinto su tele con colori per stoffe. La femminilità, la
delicatezza, la pulizia del gesto creativo dona alle sue opere, colte nella
loro essenzialità, una purezza di significato. Questo suo modo di fare e
intendere l’arte la lega sicuramente all’oriente, alla filosofia che
caratterizza questo paese lontano: una scoperta avvenuta a posteriori, lungo il
suo percorso di ricerca.
Contraria ai gesti
ripetitivi, alla monotonia dettata dalla pittura convenzionale, come quella
realizzata con l’olio, la tempera su tela o il classico acquerello, ha
cominciato ad appassionarsi, una volta conosciuto, all’acquerello giapponese. «Il fatto di non disegnare
niente, di andare assolutamente a mano libera, di lasciare che l'acqua e il
colore facciano un po' da padroni, anche se in verità è poi sempre l’artista
artefice del prodotto finale, mi ha fatto pensare “ecco questa è la mia
pittura”.» La libertà
totale di essere nella materia, l’armonia tra il pennello e l’oggetto che si
nasconde nell’elemento sul quale il colore si adopera, in Patrizia è come uno
svelare il già nato! I suoi fiori navigano in colori d’emozione ed al contempo
diventano decorazioni attraverso l’ago e il filo, un esercizio di precisione,
che diventa quasi una meditazione, dove i pensieri si perdono tra un petalo e
l’altro.
Sperimentazioni di Loredana Caretti
Loredana Caretti (Milano, ’50) inizialmente attraversa i sentieri
dell’arte per mano di un pittore lombardo, Aldo Sterchele, grazie al quale
sperimenta differenti tecniche. Successivamente, interiorizzando il linguaggio
di rappresentazione si muove su diversi piani di ricerca: dal paesaggio alle
nature morte fino ad arrivare al ritratto, ad ambientazioni abitate. Da una
parte, tratta la natura morta con allegria, usando colori che rendono la tavola
felice, di buona compagnia, mentre quando sceglie altri tipi di soggetti li
capta in atmosfere particolari… silenziose, raccolte, intime, in colori
malinconici, slavati o perfino oscuri.
La sua meta è forse cogliere gli individui intenti in dialoghi quasi
segreti e nello stesso tempo svelare il rapporto che vive dentro noi stessi, in
quell’incessante evoluzione interiore, come nell’opera che raffigura due donne
con i capelli neri. Ritraggono rispettivamente il pudore e la vanità ed in
realtà sono la stessa persona ma rappresentata in due momenti diversi della
crescita.
Osservando i suoi lavori, si respira un’atmosfera di intimità tra
persone affini sotto degli ombrelli o all’interno di una sala tra donne…e poi
nasce quel paesaggio con i rami spogli: dove tutto sembra spogliato dell’avere
fa intravedere l’essere. Nell’apparire di questa nudità paesaggistica
s’intravede l’anima del mondo.
Il mare appare vivace, testimone di un trascorso felice. «Ho introdotto nel dipinto una rete vera e propria, me l’ha data un
pescatore del mare di Cesenatico. Esce dalla barca disegnata. L’opera l’ho
realizzata pensando ai miei due nipoti. Infatti i nomi incisi sulla barca, sono
proprio i loro, Marco e Michelle. Noi ci divertiamo nell’acqua. Ho cominciato a
colorarla con la tempera e poi con la spatola ho agito sulla tempera e così
sono nati dei riflessi che non potevo immaginare. L’ho coperta con la damar e
l’ho ripassata infine con i colori ad olio, però quei riflessi nati per caso
sono rimasti.»
Esposizione Collettiva
Casa delle artiste
Via
Magolfa, 32, 20143 Milano MI
Dal 10 al
22 settembre 2019
Inaugurazione
10 settembre, dalle 18.30
A cura di
Valentina Cavera
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